Nelle ultime settimane siamo inondati dal messaggio diffuso non solo attraverso spot, ma anche alla fine di ogni telegiornale, sulla convenienza del canone TV 2016. Il consigliere della Rai Carlo Freccero parla addirittura di “legge falsa”. Le associazioni dei consumatori hanno rinnovato la loro campagna per abolirlo. C'è però una questione di fondo. E riguarda proprio la comunicazione.
Perché, ci chiediamo, non dire pane al pane e vino al vino? Forse un po' più di trasparenza e di coraggio non guasterebbero. Non si può, infatti, nascondere ogni anno, con un giro di parole coniate da qualche esperto di marketing, che il canone non è altro che un'imposta che, secondo quanto ci ricordava lo slogan del 2014, “si deve”. Per che cosa? Non è per il possesso di un televisore. O forse sì? Non è per vedere i programmi o i canali Rai. O forse sì? Non è per sostenere il servizio pubblico televisivo. O forse sì? Quest'anno sembrerebbe addirittura servire a coprire costi del sistema Paese molto lontani da quelli della TV.
Eppure sappiamo che il termine “canone” trae la sua origine dal codice teodosiano, dove indicava la prestazione in denaro o in derrate, corrisposta a intervalli determinati di tempo, per godere di un determinato bene.
Quindi paghiamo per un bene. Perché non dirlo chiaramente, una volta identificato quale sia questo bene, anche negli spot e alla fine del telegiornale? La semplicità e la convenienza, considerati come slogan principali della campagna 2016, assumerebbero forse maggiore significato.
Cosa ne pensano i comunicatori pubblici?
C.T.
