In rete, sui social, e nel sussurare ozioso da macchinetta del caffé si stanno sollevando da più parti più o meno velate ostruzioni e critiche al processo di trasparenza e di garanzia della qualificazione professionale che, vivaddio, vede coinvolti anche i comunicatori pubblici.
Un fenomeno fisiologico che si accompagna a ogni cambiamento. Una zavorra culturale che fa la sua comparsa ogni qual volta scricchiola il "si è fatto sempre così".
E' bene ricordarlo: la Legge 4/2013 nasce per recepire le indicazioni dell'Unione Europea
a tutela e a garanzia dei cittadini per ridurre il fenomeno delle ciarlatanerie e le investiture autoreferenziali. Persino la regina delle favole aveva bisogno di uno specchio per avere conferma di essere "la più bella del reame".
Integrità, trasparenza, responsabilità e spirito di innovazione sono - o dovrebbero essere - i requisiti minimi per considerarsi un aspirante comunicatore pubblico. L'introduzione anche nel nostro Paese di regole e criteri volti a consentire a una comunità di professionisti di riconoscersi reciprocamente e di farsi riconoscere come tali dai cittadini,
dai potenziali committenti e dalle Istituzioni, dovrebbe essere accolta come una festa e non come una jattatura. Certo, prendersi la briga di mettere in discussione periodicamente il proprio bagaglio di competenze e conoscenze può scatenare una crisi dell'autostima di qualcuno che si sente depositario della verità assoluta sulla comunicazione. Beato lui. Quanti invece riconoscono che la comunicazione, come tutte le conoscenze umane, sia in costante divenire ed evoluzione, avrà tutto l'interesse a mantenere viva la propria crescita professionale.
Ricordiamo sempre
che il nostro datore di lavoro ha un azionariato diffuso, circa 56 milioni di azionisti: i cittadini.
Marco Magheri