Uno degli effetti della disintermediazione digitale è la fine dello star system tradizionale. Nell'era biomediatica uno vale un divo. Con la conseguente rottura del meccanismo di identificazione e proiezione sociale che in passato veniva attivato dalla fascinazione esercitata dal pantheon delle celebrità: prima venerate e oggi smitizzate nel disincanto del mondo. Il divismo aveva impregnato gran parte della cultura di massa del '900, legato al medium per eccellenza di quella cultura: il cinema. Oggi la moltitudine dei soggetti, novelli Prometeo dell'era digitale, ha trascinato quel pantheon giù dall'Olimpo. Uno vale un divo: siamo tutti divi; o nessuno, in realtà, lo è più. La metà degli italiani (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (tra i giovani under 30 la percentuale sale al 56,1%). Il 30,2 %, un terzo, ritiene che la popolarità sui social network sia fondamentale per essere una celebrità (la pensa così il 42,4% dei giovani). Mentre un quarto (il 24,6%) sostiene che semplicemente il divismo non esiste più. E comunque appena un italiano su 10 prende a modello i divi come miti a cui ispirarsi (il 9,9%).
Nel Rapporto, per punti (che affronteremo più dettagliatamente nel prossimo numero della news letter ndr), si afferma che le nuove diete mediatiche degli italiani sono tv e radio sul web. Registrati nuovi record nell'uso di smartphone e social network. Gli italiani sono un popolo di navigatori, ma non di lettori. In dieci anni è triplicata la spesa per smartphone. La frattura generazionale nei consumi mediatici è sempre forte. Per il 47% degli italiani è positivo l'uso dei social network in politica.
 
                                 
        
         
                                         
                                         
                                         
                                        